18 Feb

 

IL SOLE 24 ORE

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Alla cassa il 1° marzo per pagare le rate della pace fiscale

Il 28 febbraio, che slitta a lunedì 1° marzo, il Fisco chiama alla cassa i contribuenti che si sono avvalsi delle definizioni agevolate del 2019 e hanno scelto di pagare a rate. Si tratta dei contribuenti che si sono avvalsi della rottamazione ter (articolo 3 del Dl 119/2018), della definizione agevolata dei processi verbali di constatazione (articolo 1) o della chiusura delle liti pendenti (articolo 6). Sono circa 2milioni i contribuenti che devono pagare la rata o le rate in scadenza il 1° marzo. Sui pagamenti per la rottamazione ter, è prevista una tolleranza di 5 giorni. Questo significa che il pagamento della rata in scadenza il 1° marzo può essere fatto entro lunedì 8 marzo 2021, tenuto conto degli ulteriori differimenti di sabato 6 e domenica 7 marzo.

Rottamazione e saldo e stralcio. Il 1° marzo scade anche il termine per pagare le rate della rottamazione ter e del saldo e stralcio, in scadenza nel 2020, fermo restando che le rate scadute nel 2019 devono essere state regolarmente pagate (articolo 13- septies del Dl 137/2020). In agenda, quindi, le quattro rate della rottamazione scadute nel 2020, il 28 febbraio, il 31 maggio, il 31 luglio e il 30 novembre e la seconda e terza rata delle somme dovute per il saldo e stralcio, in scadenza ordinaria il 31 marzo 2020 e il 31 luglio 2020. In questo caso, però, non è applicabile la “tolleranza” di 5 giorni prevista ordinariamente per le altre rate. Le somme dovute per il saldo e stralcio potevano essere versate in unica soluzione entro il 30 novembre 2019, o in rate così suddivise: il 35% con scadenza il 30 novembre 2019, il 20% con scadenza il 31 marzo 2020 (ora, 1° marzo 2021), il 15% con scadenza il 31 luglio 2020 (ora, 1° marzo 2021), il 15% con scadenza il 31 marzo 2021 e il restante 15% con scadenza il 31 luglio 2021. In caso di rateazione, si applicano gli interessi al 2% annuo e non si applicano le disposizioni generali in tema di rateazione dei debiti tributari. Al riguardo, si deve rilevare che gli interessi non devono essere calcolati per il periodo di proroga, nel rispetto del principio univoco e consolidato che la “proroga è gratuita”.

Rischio decadenza. La proroga che ha spostato i pagamenti della rottamazione e del saldo e stralcio dal 10 dicembre 2020 al 1° marzo 2021 è sicuramente insufficiente, anche perché concentra troppe rate da pagare nello stesso giorno. Ma, al di là delle future e inevitabili proroghe, è indispensabile che il governo ponga rimedio alla norma che prevede la decadenza dalla rottamazione o dal saldo e stralcio se non si pagano interamente e tempestivamente le somme previste. La norma va cambiata in modo da consentire il ravvedimento, in caso di pagamenti tardivi, con la riduzione della sanzione del 30% sulle rate non pagate, con l’aggiunta degli interessi legali, così come avviene, ad esempio, nel caso di tardivi od omessi versamenti delle rate successive alla prima per la chiusura delle liti pendenti. È evidente che, se non si trovano rimedi, il prolungarsi degli effetti del coronavirus comporterà gravi danni, sia per i cittadini, che rischiano di fallire, sia per l’erario, che rischia di non incassare il gettito preventivato dalla rottamazione ter e dal saldo e stralcio.

(Giuseppe Morina – Tonino Morina)

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Irpef, semplificazioni e lotta all’evasione: riforma a tutto campo

«Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta». Sulla riforma fiscale il presidente del Consiglio indica una strada lunga. Che punta a un intervento a tutto campo per arrivare a una «revisione profonda dell’Irpef», fatta di «razionalizzazioni e semplificazioni del prelievo», in grado di «ridurre gradualmente il carico fiscale» trovando le risorse per farlo in un «rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione». Nel suo intervento al Senato sulla fiducia, il nuovo presidente del Consiglio ha indicato soprattutto un metodo. Ambizioso. Perché nasce dall’esigenza di superare la logica dell’emergenza politica e della ricerca del consenso, che in questi anni ha moltiplicato i ritocchi settoriali, e spesso scoordinati, al nostro sistema fiscale. Con risultati non eclatanti, visto che l’Italia primeggia in Europa in fatto di pressione fiscale sul lavoro. Per riassumere l’idea del metodo che ha intenzione di imporre alla politica, Draghi indica due modelli: il primo è italiano e risale alla riforma Visentini del 1971 che di fatto regge ancora oggi l’architettura fiscale del Paese. Il secondo invece è danese: a Copenhagen nel 2008 fu nominata una «commissione di esperti» che dopo un confronto con partiti e parti sociali presentò al Parlamento un progetto di riduzione del carico fiscale per due punti di Pil, con un taglio all’ultima aliquota marginale e un aumento della soglia di esenzione. A orientare Draghi verso l’orizzonte danese non sono gli aspetti specifici di quel sistema, che peraltro spinge la Danimarca ai vertici della pressione fiscale complessiva (46% del Pil). Ma è un tema di metodo, basato su un approccio che richiede «tempo e competenza» e punta a un ridisegno organico di tutti gli ingranaggi di un meccanismo complesso come quello tributario. L’indicazione però non è casuale perché nell’ottica del nuovo Governo la riforma fiscale sarà strettamente collegata alle richieste comunitarie che vincolano anche il Recovery Plan. E che si basano su alleggerimento della pressione sul lavoro, spostamento del carico verso consumi e patrimoni e riforma del catasto. La questione chiave però è quella metodologica. Da non leggere necessariamente con le categorie stereotipate della opposizione tra tecnici e politici. Il Parlamento infatti ha avviato già da inizio anno, con l’indagine conoscitiva delle commissioni Finanze di Camera e Senato, un complesso lavoro di analisi sulla riforma fiscale che ha coinvolto istituzioni ed economisti di primo piano, e che ha visto fin qui una partecipazione interessata di tutte le forze politiche. «Lo mettiamo a disposizione del Governo», sottolinea il presidente della commissione Finanze Luigi Marattin (Iv), applaudendo alla proposta di Draghi. Braccia aperte anche dai tecnici del settore. L’idea di Draghi è, secondo il presidente dei commercialisti Massimo Miani, «giusta e condivisibile a partire dal metodo» e può aprire «una stagione nuova di coinvolgimento» dei professionisti.

(Marco Mobili – Gianni Trovati)

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ITALIA OGGI

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Superbonus, le pertinenze non penalizzano il benefit

Per gli interventi che fruiscono del 110% si guarda alla situazione iniziale per i tetti di spesa ma, per il cambio d’uso, è inevitabile valutare l’unità immobiliare alla fine dei lavori. Con riferimento alla quantificazione delle quattro unità residenziali, che permettono all’unico proprietario di un unico edificio di accedere alla detrazione maggiorata, la logica porta a considerare la situazione senza considerare nel calcolo le pertinenze. Questo ciò che è emerso dalle varie relazioni, sviluppate nel corso di un webinar organizzato il 16 febbraio scorso dall’Istituto per il governo societario (Igs), del presidente Paolo Moretti, avente ad oggetto il superbonus 110%, con la partecipazione, tra i qualificati relatori, anche della dirigente dell’Agenzia delle entrate, Patrizia Claps, alla presenza di quasi mille professionisti. La giornata è iniziata, dopo i saluti di rito dei rappresentanti di tutti gli ordini professionali (consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati e notai), con la relazione della dirigente dell’Agenzia, intervento centrale della giornata, che ha analizzato le recenti modifiche alla disciplina, di cui agli articoli 119 e 121 del dl 34/2020, a cura della legge di bilancio 2021 (legge 178/2020) e con una precisazione utile, stante la pubblicazione di recenti interpelli non allineati con le dette modifiche; su detto ultimo punto, infatti, la dirigente ha confermato che talune risposte non potevano tenere conto delle più recenti modifiche perché, per il relativo sviluppo, le stesse hanno dovuto tenere conto e rispettare i termini di notifica al contribuente. Si è preso atto, quindi, della assimilazione degli edifici fino a quattro unità ai condomini e della possibilità, in caso di utilizzo promiscuo dell’immobile, di una riduzione al cinquanta per cento del bonus maggiorato spettante, nonché dei limiti di spesa da considerare per ogni intervento in presenza di interventi sul rischio sismico, da contabilizzare in maniera distinta, come già presentato in un documento di prassi (circ. 24/E/2020), facendo attenzione alla cumulabilità delle detrazioni, sempre possibile se non riferibile ai medesimi interventi. Sul tema della valorizzazione delle soglie di spesa (o di detrazione, se si parla di efficientamento) è stato confermato che la valutazione deve essere fatta tenendo in considerazione la situazione iniziale del compendio immobiliare, con la conseguenza che se dall’intervento si ottiene una unità in luogo delle due precedenti, le soglie devono essere considerate per due unità; resta valida, al contrario, la valutazione ex post (finale) nel caso di cambio di uso dell’unità immobiliare e, quindi, un intervento importante che comporta il passaggio del classamento da una categoria destinataria della detrazione maggiorata (per esempio, A/2) in un una categoria esclusa (per esempio A/1), comporta l’impossibilità alla fruizione del 110%. Con riferimento alla esclusione della detrazione maggiorata per gli interventi antisismici eseguiti su unità immobiliari plurifamiliari si deve rispettare quanto indicato in una recente risposta ad un interpello (n. 87/2021) sviluppata dopo l’interlocuzione con il dicastero di riferimento, ma considerando l’evoluzione normativa introdotta dalla legge 178/2020. Un punto emerso dalle relazioni è quello riferibile alla non remota possibilità che al contribuente possa essere contestata una attività elusiva, o meglio abusiva, finalizzata all’ottenimento della detrazione del 110%, in presenza di operazioni destinate a configurare una fattispecie agevolabile (concessione in comodato di unità posseduta da un soggetto escluso dal 110%), sebbene la stessa Agenzia delle entrate abbia fornito qualche spunto (donazione per costituzione del condominio) in precisi documenti di prassi (circ. 30/E/2020 risposta 4.4.6); sul punto l’indicazione fornita è che la valutazione deve essere analizzata «caso per caso». Infine, due problemi ancora aperti e sui quali si auspicano futuri chiarimenti. Il primo riguardante gli oneri, in genere di urbanizzazione, o altre spese comuni a più interventi, ai fini del rispetto delle soglie, per le quali si ritiene corretta anche l’applicazione di un criterio proporzionale, sebbene afferente a un preciso intervento (si pensi al ponteggio necessario per il cappotto ma non per la sostituzione della caldaia) e il secondo concernente le parti «non» riscaldate per un intervento completo su un immobile (quindi che le comprende) giacché una delle condizioni necessarie per poter fruire della detrazione del 110% e, in generale, dell’ecobonus ordinario, è che gli interventi siano eseguiti su un edificio riscaldato.

(Fabrizio G. Poggiani)

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Prezzo unico per casa e terreno. Registro più alto se non è pertinenza

In caso di trasferimenti riguardanti beni per i quali sono previste aliquote diverse, l’imposta di registro si applica con l’aliquota più alta se le parti non hanno pattuito un corrispettivo distinto tra i vari beni. Questo il principio espresso dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 29527 del 24 dicembre 2020. La vicenda riguarda una compravendita, stipulata nel 2009, avente ad oggetto due appartamenti ed alcuni terreni, siti in zona di “Salvaguardia ambientale”, ai quali le parti avevano attribuito natura pertinenziale. La vendita era stata concluso per il prezzo complessivo di 4.100.000 euro. In atto la parte acquirente aveva chiesto che le imposte indirette fossero applicate secondo il criterio del “prezzo valore”, di cui all’articolo 1, comma 497, della legge n. 266 del 2005. Questo criterio consente, per i soli trasferimenti a titolo oneroso di abitazioni e relative pertinenze, a favore di persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di attività di commerciali, artistiche, professionali, di chiedere che la tassazione, ai fini dell’applicazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, sia effettuata sulla base del “valore catastale” dei beni trasferiti e non sul corrispettivo stabilito dalle parti. L’amministrazione finanziaria, con la risoluzione n. 149 dell’11 aprile 2008 ha riconosciuto l’applicazione del “prezzo valore” anche in relazione ai terreni agricoli, pertinenziali di abitazioni, precisando che “il meccanismo del c.d. “prezzo valore” trova applicazione anche relativamente ad una molteplicità di pertinenze, purché, ovviamente, sia individuabile in modo certo il rapporto di accessorietà del bene pertinenziale rispetto al bene principale, il quale, ai fini del godimento della disposizione in esame, deve necessariamente essere un “immobile ad uso abitativo”. Nel caso in esame il notaio, in sede di registrazione dell’atto, ha applicato, ai fini dell’imposta di registro, unicamente l’aliquota prevista, secondo la disciplina allora vigente, per i fabbricati (7%). Ciò in applicazione del terzo comma dell’articolo 23 del testo unico sull’imposta di registro, ai sensi del quale “Le pertinenze sono in ogni caso soggette alla disciplina prevista per il bene al cui servizio od ornamento sono destinate”. In sede di controllo della tassazione effettuata dal notaio, l’ufficio territoriale presso il quale era stato registrato l’atto ha, innanzitutto, negato che i terreni trasferiti fossero pertinenziali alle abitazioni cedute con lo stesso atto. Di conseguenza ha ritenuto inapplicabile, relativamente ai terreni, la regola del “prezzo valore”. A questo punto, considerato che, come si è detto, in atto era stato indicato un unico corrispettivo (4.100.000 euro) relativo sia alle due abitazioni che ai terreni, l’Ufficio ha applicato sull’intero prezzo l’aliquota allora prevista per i terreni (8%). Ciò sulla base del primo comma del citato articolo 23, in base al quale “Se una disposizione ha per oggetto più beni o diritti, per i quali sono previste aliquote diverse, si applica l’aliquota più elevata, salvo che per i singoli beni o diritti siano stati pattuiti corrispettivi distinti.” Entrambe le commissioni tributarie (Ctp di Mantova, sentenza n. 29/2012 e Ctr della Lombardia, sentenza n. 2327/2015) hanno ritenuto fondato l’avviso di liquidazione emesso dall’ufficio. In particolare, i giudici tributari hanno evidenziato come dalla documentazione esibita nel processo (estratti di mappa e fotografie) non risultavano elementi in grado di dimostrare il vincolo pertinenziale dei terreni rispetto ai fabbricati. Si è, altresì, ritenuto che l’ampiezza e le caratteristiche esteriori dei terreni impedivano di considerare gli stessi come un semplice giardino pertinenziale alle abitazioni. È stata, quindi, negata la tesi del contribuente, secondo la quale, sarebbe sufficiente la volontà del proprietario a creare un vincolo pertinenziale. I giudici della Corte di cassazione, confermando le sentenze tributarie, hanno richiamato l’articolo 817 del codice civile precisando che “L’attribuzione della qualità di pertinenza si fonda sul criterio fattuale correlato alla destinazione effettiva e concreta della cosa a servizio o ornamento di un’altra…”. Accogliendo la tesi dell’ufficio territoriale, la Corte di cassazione ha affermato che “…per qualificare come pertinenza di un fabbricato un’ara, è necessario che intervenga un’oggettiva e funzionale modificazione dello stato dei luoghi che sterilizzi in concreto e stabilmente lo ius edificandi e che non si risolva, quindi, in un mero collegamento materiale, rimovibile ad libitum.” Nella motivazione della pronuncia in esame è stato richiamato l’orientamento già espresso dalla stesa Corte (sentenza n.13742/2019) in base al quale, affinché un bene possa essere considerato pertinenziale, devono sussistere:

  • Il requisito oggettivo, in base al quale il bene pertinenziale deve porsi in collegamento funzionale o strumentale con il bene principale
  • Il requisito soggettivo, consistente nella effettiva volontà dell’avente diritto di destinare durevolmente il bene accessorio a servizio od ornamento del bene principale

Nel caso di specie, non essendo stata fornita la prova della sussistenza del vincolo pertinenziale i giudici hanno condiviso l’inapplicabilità del “prezzo valore” in relazione al trasferimento dei terreni. Considerato, inoltre, che in atto era stato indicato un corrispettivo unico, relativo sia alle abitazioni che ai terreni, è stata ritenuta legittima l’applicazione dell’aliquota maggiore, ovvero dell’aliquota prevista, al momento della stipula dell’atto, per i terreni (8%). Ciò, sulla base del primo comma dell’articolo 23 del Testo unico sull’imposta di registro. È stato, quindi, respinto il ricorso presentato dal contribuente.

(Marcello Cardone)

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